Il diavolo tentatore del Savonarola del marxismo
Fausto Bertinotti, una vita di no ai governi capitalisti
Sebastiano Messina, da "la Repubblica", primavera 1995Ormai da una vita, Fausto Bertinotti è perseguitato dal dilemma della stanza dei bottoni. È inseguito da un diavolo tentatore che vuole a ogni costo macchiare la sua anima immacolata di comunista con il peccato mortale di un voto a un governo dell'Occidente capitalistico. È una vecchia storia. Nel 1962 - quando lui era un combattivo seguace di Raniero Panzieri e di Riccardo Lombardi - appena il Psi votò per il primo governo di centro-sinistra il ventenne Bertinotti si alzò e restituì la tessera del partito. Trent'anni dopo, quando il Maligno si insinuò alle Botteghe Oscure sotto le mentite spoglie di Carlo Azeglio Ciampi, lui disse addio a tutti per non essere contaminato da quell'astensione: "È come se onde immense assumessero l'aspetto di piccole increspature, come se fatti enormi scivolassero dentro uno spettro che li addomestica" spiegò.
L'anno scorso, quando per un momento avvistò il rischio che i progressisti vincessero le elezioni, e la tentazione governativa si impossessasse di lui, Bertinotti gettò sul tavolo il suo tris d'assi, disegnando un'Italia piena di scioperi, fuori dalla Nato e con una bella tassa sui Bot. Il diavolo ancora scappa. Eppure, proprio ora credeva di essersi messo al sicuro, nel bunker degli ultimi profeti del comunismo, il vecchio dilemma si ripresenta, indossando sfacciatamente il gessato grigio di un pallido banchiere di destra. Ma non lo avrà, il suo voto, neanche stavolta.
La verità, la verità profonda, è che per l'ultimo raffinato Savonarola del marxismo, il comunista con la erre moscia, le giacche di tweed e l'impermeabile Burberry's, andare al governo non è un miraggio ma una trappola infernale. Lui, semmai, è interessato alla presa del potere, quello definitivo, al socialismo che abbatte finalmente il capitalismo e elimina lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo. Perciò Berlusconi o Dini per lui pari sono, e perché mai un banchiere dovrebbe essere meglio di un capitalista? Qualche sera fa, quando i suoi compagni scherzavano sulla faccia di Dini, "una via di mezzo tra Pluto e Nosferatu", lui li ha interrotti citando Balzac: "lo sguardo del banchiere è come quello dell'avvoltoio: avido e indifferente, chiaro e scuro, brillante e cupo".
Le banche, i forzieri del capitalismo. Forse è per questo che il compagno Fausto non ha mai avuto un conto in banca. E quando, alla tenera età di 54 anni è stato costretto ad aprirne uno per poter incassare lo stipendio di parlamentare, si è fermato smarrito davanti al primo assegno da compilare. Del denaro si è sempre occupata sua moglie Lella: lui le versa lo stipendio e lei gli dà 50 mila lire. Quando le spende tutte, gliene dà altre 50 mila e così fino alla fine del mese. Col tempo, Bertinotti ha scoperto i lati piacevoli della società capitalistica, e si lascia intrigare dagli impermeabili e dai maglioni, si gode lo sfarzo di una notte al Grand Hotel, decanta il caffè Florian e le penne stilografiche... Mai comunista fu più elegante, giura chi se ne intende. E fa un po' di tenerezza quel portaocchiali di pelle che lui porta sempre appeso al collo, la sua coperta di Linus, la sua fondina di intellettuale: quando qualcosa non va, lui si china come se dovesse prendere la pistola, ma estrae solo un paio di occhiali.
Nella sua visione romantica del socialismo, la politica è passione, non scienza. È emozione, non calcolo. Il suo sogno sono mille piazze piene di bandiere rosse, e una volta confessò che il miracolo in cui spera non è un trionfo elettorale ma uno sciopero totale alla Fiat, cioè lo scacco matto al Padrone. Ma lui sa che la sua vittoria non è di questo millennio, e siccome ha ragione Keynes, e sul lungo periodo saremo tutti morti, lui vive solo per la Lotta, "senza la quale c'è solo il salotto, il cretinismo parlamentare". E dunque il suo terrore è una società senza scioperi, cioè "la desertificazione del conflitto sociale".
Bertinotti è nato a Milano, ha studiato a Trento ed è cresciuto a Torino. Fino al 1993 la sua casa era il sindacato. E se il dilemma del governo lo ha sempre inseguito, il compagno Garavini lo ha sempre preceduto. Lasciandogli, nell'ordine, la segreteria piemontese della Cgil, la segreteria confederale del sindacato e la segreteria di Rifondazione. Sergio si alzava e Fausto si sedeva. Come sindacalista, Bertinotti ha un curriculum impeccabile: non ha mai firmato un solo accordo. Il nemico di classe non lo ha mai fregato. Un sindacalista della Uil lo descrisse così: "Bertinotti è sempre contro: per lui un accordo è accettabile solo se l'azienda accetta integralmente la piattaforma del sindacato". Fu lui, nel 1980, a spingere la Cgil verso quei 35 giorni di barricate alla Fiat Mirafiori. Una battaglia epica, nei ricordi di Bertinotti. Un vero peccato che si sia conclusa con una delle più cocenti sconfitte per il sindacato e per il Pci.
Lui si vede come un autentico "operaista", anzi "uno spontaneista luxemburghiano". Lo chiamavano "Manifausto", perché ogni tanto piazzava un'articolessa da un ettaro sul Manifesto, discettando sulla "ridislocazione complessiva delle forze sociali", sull'"assolutizzazione della competitività" e sulla "flessibilizzazione dei fattori produttivi". Sembravano, più che articoli, lettere ad Engels. Ma incantavano la Rossanda e tutto il club di via Tomacelli. Un amore così intenso che un giorno, scoprendo una scappatella di Bertinotti sull'Indipendente, un giornalista del Manifesto confessò la sua delusione sul giornale: "Che tristezza, Fausto". Seguì rappacificazione a mezzo stampa. Ma qualcosa si dev'essere incrinata, da allora: nel giorno in cui Bertinotti difendeva nel partito il suo no a Satana-Dini il Manifesto si domandava in prima pagina se invece non fosse il caso di "baciare il rospo" per difendere la democrazia. Ecco cosa combina, il demone del capitalismo.